di Raffaele Crispino, Consigliere AISM, Innovation manager, CEO Project & Planning, Vicepresidente Fondazione BeALab, CMO Fondazione Armonie d’Arte.
Abbiamo assistito al più grande esperimento sociale degli ultimi anni. In pochi giorni, preso atto della gravità della pandemia Covid-19, organizzazioni, aziende e famiglie si sono trovate a fare i conti con una situazione di limitazione che ha impattato sulle modalità di vita e di lavoro. In poche settimane, terminologie ai più sconosciute e nuove modalità di comunicare e interagire sono entrate nella quotidianità di tutti.
Lo smart working, fino ad allora patrimonio di analisti organizzativi e di sperimentatori delle tecnologie digitali collaborative, è divenuto irrinunciabilmente attuale e di interesse generalizzato. Un processo che ha permesso di sfatare miti su difficoltà (l’utilizzo delle tecnologie) e inapplicabilità (solo alcuni settori e solo le aziende più strutturate), ma che ha avuto anche delle controindicazioni: una per tutte la “derubricazione” dello smart working a remote working, dove l’obbligo di stare a casa ha fatto venire meno la carica innovativa dello smart working, intesa come paradigma organizzativo che riflette il cambiamento, ovvero l’evoluzione delle comunità, del modo di vivere e di lavorare.
La pandemia ha avuto, quindi, un enorme impatto sulla diffusione dello smart working emergenziale, contribuendo ad accelerare cambiamenti nell’organizzazione del lavoro già in atto per effetto dell’evoluzione tecnologica.
Secondo i dati dell’Osservatorio dello Smart Working del Politecnico di Milano, in Italia nel 2019 gli smart worker erano circa 570 mila. L’emergenza sanitaria ha determinato una forte accelerazione, con oltre 6,6 milioni i lavoratori da remoto attivi a marzo 2020, scesi a 5 milioni a settembre 2020, pari al 33,8% dei lavoratori dipendenti. Ma è un fenomeno dal quale non si torma più indietro, come testimoniano molteplici indagini e che, secondo l’Osservatorio, si stabilizzerà nella “nuova normalità” a quota 5,3 milioni.
Traguardando uno scenario oltre l’emergenza, dobbiamo guardare attentamente le criticità emerse durante l’ampio utilizzo del remote working emergenziale e cogliere le implicazioni e gli impatti sulle modalità operative per delineare un modello di approccio al cambiamento efficace che consenta alle persone e alle organizzazioni di cogliere i vantaggi sperimentati con lo smart working.
Criticità di natura relazionale, particolarmente sentite nei mesi dell’emergenza, pesano maggiormente di quelle di natura più tecnica, riguardanti strumentazioni e infrastrutture tecnologiche. Mentre in termini di performance lavorative prevale un orientamento di maggiore autonomia e responsabilizzazione su obiettivi e risultati. Insomma, un’esperienza che, nonostante le difficoltà, l’improvvisazione e le limitazioni, testimonia un orientamento all’efficacia nel lavoro, che deve coniugare un modo nuovo di relazionarsi in azienda fondato su trasparenza e fiducia tra capo e collaboratore.
Lo smart working rappresenta, quindi, un cambiamento strutturale. Un nuovo modo di lavorare e collaborare in azienda imperniato su di un cambiamento culturale e strutturale dell’organizzazione, dei sistemi di risorse umane, delle policy e del ruolo dei capi. Introdurre lo smart working significa attuare un percorso di change management, fatto su misura, in cui persone, tecnologie e spazi si integrano in un unico flusso.
In questo quadro riacquista piena forza la visione dello smart working come filosofia manageriale fondata sulla restituzione alle persone di flessibilità e autonomia nella scelta degli spazi, degli orari e degli strumenti da utilizzare a fronte di una maggiore responsabilizzazione sui risultati, sostenuta e portata avanti in questi anni dall’Osservatorio dello Smart Working.
Un nuovo approccio al modo di lavorare e collaborare all’interno di un’organizzazione che si basa su quattro pilastri fondamentali:
- revisione della cultura organizzativa;
- flessibilità rispetto a orari e luoghi di lavoro;
- dotazione tecnologica;
- spazi fisici;
e che mette al centro dell’organizzazione la persona con lo scopo di far convergere gli obiettivi personali e professionali con quelli dell’azienda e aumentarne la produttività.
Non basta introdurre alcuni giorni a settimana di lavoro da casa, riorganizzare le scrivanie in un grande open space, investire nelle infrastrutture ICT e creare un’area relax. Certo, include questi aspetti ma ne integra molti di più, che si poggiano su quel cambiamento culturale e strutturale dell’organizzazione e dei modelli operativi che ridefiniscono le modalità di relazione nei team e con i capi, che sono i veri abilitatori delle potenzialità dei loro team.
Dall’ufficio come obbligo, all’ufficio come scelta e luogo dove vale la pena andare. Un passaggio difficile da operare, ma straordinariamente potente nei risultati, che ha bisogno di una articolata programmazione, che prenda in considerazione tutti gli aspetti della vita d’ufficio e dell’employee journey experience.
Questo implica di non concentrarsi solo sui momenti di presenza in ufficio, ma sul più ampio sistema di touch points tra vita privata e lavorativa che le persone sperimentano: gli spostamenti casa-lavoro, l’equilibrio tra vita privata e lavorativa (orario di lavoro), le attività negli spazi di lavoro individuali e collettivi, l’interazione con la tecnologia per il lavoro e la sua organizzazione, le possibilità di personalizzazione degli spazi e il comfort durante la giornata, i servizi “allargati” come l’assistenza, i pasti, i benefit, ecc.
Il design degli spazi deve essere ridefinito in base alle esigenze reali dei dipendenti, secondo il principio dell’activity based setting. Ogni ruolo aziendale, anche il più statico, passa durante la giornata attraverso una molteplicità di attività differenti, ognuna delle quali richiede un luogo dalle caratteristiche specifiche: dai momenti in cui è richiesta la massima concentrazione a quelli di socialità e relax, passando per quelli in cui il confronto è essenziale per stimolare la creatività. L’azienda che voglia implementare il lavoro smart dovrà necessariamente prendere in considerazione questi elementi e le loro peculiarità, per riuscire a creare degli spazi multi-sfaccettati, che si adattino ai bisogni delle persone che li utilizzano, superando anche, talvolta, la logica delle postazioni ad uso esclusivo e introducendo sistemi di programmazione dell’uso dei diversi spazi – sale riunioni, scrivanie, salottini, phone booth, laboratori, ecc. – che, da un lato spinge a migliorare la pianificazione delle attività e dei tempi, dall’altro, genera una razionalizzazione e l’efficientamento dei costi di struttura.
Un viaggio abilitato dalla tecnologia, costantemente presente nelle nostre vite, ma troppo spesso lasciata fuori dai nostri uffici. Quindi, smart significa ridefinire spazi e procedure alla luce di nuova flessibilità, per essere sempre accessibili e disponibili in modo “intelligente” e collaborativo, eliminando colli di bottiglia e favorendo, nel rispetto del proprio work-life balance, il raggiungimento degli obiettivi di produttività, autonomia e responsabilizzazione.
Infatti, anche l’ufficio più tecnologico, con la massima flessibilità oraria e tutti i benefit più innovativi a disposizione, non riuscirà a innescare un vero cambiamento in ottica di smart working se la cultura del management non permetterà ai dipendenti di farne uso, se il team leader non sarà capace di dare obiettivi e di valutare il lavoro del proprio gruppo sulla base dei risultati ottenuti.
Nel percorso di attuazione tailor made dello smart working le organizzazioni devono evolvere tenendo presente i comportamenti organizzativi attuali e attesi e le motivazioni e la propensione al cambiamento. Solo favorendo la crescita di autonomia, responsabilizzazione e comportamenti orientati alla capacità di ascolto, alla proposizione di soluzioni e alla collaborazione le aziende possono maturare le condizioni per una più pronta adozione dello smart working.
L’esperienza della pandemia ha dimostrato che è possibile affrontare efficacemente la “nuova normalità”. Occorre operare con consapevolezza in un chiaro percorso di change management, senza scorciatoie o identificando nell’adozione di tecnologie innovative la soluzione. Lo smart working è un’opportunità di innovazione organizzativa win-win-win. È win per i lavoratori, che migliorano la propria work-life balance. È win per le aziende che, da un lato, ricercando un modello maturo di smart working, possono aumentare produttività per lavoratore e, conseguentemente, per il sistema paese, e dall’altro, aumentare l’employer branding e la capacità di attrarre talenti. È win per l’ambiente perché ne beneficia in termini di riduzione di emissioni CO2, di inquinamento acustico e di miglioramento della qualità della vita dei luoghi.
Va, però, scongiurato il rischio, sempre più concreto, dell’ingessatura normativa, che rischia di appesantire la struttura leggera offerta dalla legge n.81 del 2017, capace di superare la visione tradizionale delle relazioni industriali, di mettere al centro la persona e di offrire spazi per la sperimentazione di formule innovative.